Presidente, onorevoli colleghi e rappresentanti del Governo che siete ancora qui fino a quest'ora, vi ringrazio. Il decreto-legge Di Maio sfiora molti campi diversi, con tante nuove norme che si prefiggono obiettivi nobili, quali il contrasto alla precarietà, il contrasto alle delocalizzazioni, il contrasto al gioco d'azzardo; ma, se scaviamo sotto le tante norme, troviamo una serie di misure cosmetiche, che temo non solo non riusciranno a ridare dignità ai lavoratori e alle imprese di questo Paese, ma rischiano di mandare un segnale confuso e di illudere precari, datori di lavoro e contribuenti. Il decreto-legge introduce delle sanzioni per quelle aziende italiane ed estere che delocalizzano le proprie attività in Paesi che non appartengono allo Spazio economico europeo entro cinque anni dall'avere usufruito di un beneficio statale.
Il decreto-legge, in realtà, riprende ed estende le disposizioni già contenute nella legge di stabilità 2014 che prevedevano già il rimborso del beneficio da parte di quelle aziende che, dopo avere ottenuto contributi in conto capitale, entro tre anni delocalizzavano all'estero e riducevano il proprio organico al 50 per cento. È assolutamente sacrosanto chiedere alle aziende di rendere conto, se con una mano ottengono, prendono, raccolgono contributi pubblici e con l'altra spostano posti di lavoro fuori dal Paese; ma, dall'altra parte, è importante evitare qualsiasi atteggiamento punitivo o sanzionatorio nei confronti di chi prova a fare impresa nel nostro Paese, specie nel caso di nuove aziende, le start up, o piccole e medie imprese.
Per questo motivo servono regole chiare e flessibili. In un mondo globale interconnesso i modelli di produzione e distribuzione diventano sempre più complessi e l'intervento dello Stato, per quanto, ovviamente, sia fondamentale per risolvere i fallimenti del mercato e agire contro la disuguaglianza tramite la redistribuzione della ricchezza, può diventare nocivo se impone troppi divieti e troppi oneri. La priorità deve essere quella di mantenere in Italia posti di lavoro, ma senza punire le aziende che si organizzano per adattarsi a un mondo in continua evoluzione. Per questo motivo, come Partito Democratico, avevamo proposto che, nel caso in cui all'azienda che delocalizza subentri un altro acquirente che riesce a mantenere i medesimi livelli di occupazione, l'azienda non veniva punita e non le si applicavano le sanzioni previste da questo decreto.
Presidente, i cicli economici sono sempre più brevi e le nuove sfide contro cui si scontrano le nostre aziende sono sempre più varie. Per questo motivo avevamo proposto di ridurre il periodo entro il quale l'azienda non può delocalizzare, perché cinque anni è un periodo troppo lungo, sul quale pochissime aziende hanno la visibilità sufficiente per valutare effettivamente se vale la pena di usufruire di un contributo statale o meno. Per lo stesso motivo avevamo proposto di escludere dal rimborso dell'iperammortamento quelle aziende che spostano i beni oggetto del beneficio solo temporalmente all'estero. Anche se è migliorata con il nostro emendamento a firma Moretto-Benamati, approvato in Commissione, la definizione stessa di delocalizzazione rischia di mettere in difficoltà quelle aziende che intendono internazionalizzare le proprie attività. Il termine “attività economica specificatamente incentivata” rimane ancora troppo generico; è proprio qui che diventa cruciale il caso delle piccole e medie imprese, la colonna portante della nostra economia.
Questo decreto rischia di avere delle conseguenze nefaste sulle piccole realtà produttive che intendono internazionalizzarsi, e per questo motivo avevamo proposto di escludere le PMI dal campo di applicazione della norma. Se questo decreto diventa legge, se questo decreto diventa legge dello Stato, prendiamo il caso di una camiceria di Nola che, con 10 dipendenti, magari durante la crisi usufruisce di un credito agevolato tramite un fondo di garanzia, e magari, 4 o 5 anni dopo, decide di aprire un punto vendita a Zurigo, Svizzera, un Paese che non fa parte dello Spazio economico europeo. Ebbene, se questa camiceria invia due dipendenti da Nola a Zurigo, decade e deve rimborsare una quota del credito agevolato di cui aveva usufruito durante la crisi.
La camiceria, quindi, ci penserà due volte prima di investire in quel mercato, il che avrebbe potuto far lievitare gli ordini, portando, eventualmente, all'assunzione di ulteriori dipendenti. Il rischio, quindi, Presidente, è quello di mandare un segnale confuso agli operatori economici, soprattutto quelli stranieri, e provocare una ricaduta negativa sul piano degli investimenti.
Investimenti di cui il nostro Paese ha disperatamente bisogno, specie il nostro Meridione; sebbene in grande ripresa negli ultimi anni - anche grazie a iniziative come Destinazione Italia, attuate dai Governi Letta, Renzi e Gentiloni - siamo ancora molto indietro. I flussi in entrata di investimenti diretti esteri non arrivano nemmeno a due punti del nostro PIL, mentre la quota degli investimenti complessivi della nostra economia non è nemmeno il 18 per cento, ben al di sotto di economie simili, come la Francia o la Spagna. Solo con una ripresa decisa degli investimenti potremo affrontare la sfida dell'innovazione e della produttività, rilanciando l'occupazione, soprattutto adesso che con la Banca centrale europea ci si appresta alla conclusione della fase di acquisto dei nostri titoli di Stato e, probabilmente, a un rialzo dei tassi di interesse. Occorre fare di tutto per sostenere la ripresa; invece, questo decreto rischia di penalizzare quelle aziende che intendono perseguire delle opportunità di espansione nei mercati emergenti, e quindi di beneficiare dell'affacciarsi di quella nuova classe media globale, quelle milioni di famiglie indiane, cinesi e indonesiane che stanno trainando la domanda che in Italia percepiamo, appunto, attraverso i dati del nostro settore turistico.
Per rendere il decreto efficace bisognava aggiungere delle disposizioni per attirare investimenti esteri nel territorio nazionale, come previsto dal nostro emendamento che, appunto, proponeva un piano strategico in coordinamento con il Ministero dello sviluppo economico e l'Agenzia per la promozione all'estero-ICE. Oltre agli investimenti finanziari, sarebbe stato utile anche incentivare il rientro di capitale umano attraverso l'estensione degli sgravi fiscali previsti dalla “legge controesodo” del 2010 per i lavoratori italiani all'estero che decidono di rientrare in Italia, come, appunto, avevamo proposto.
In termini di semplificazione fiscale sono state disattese le promesse del “Governo del cambiamento”: nemmeno un mese fa, un mese e mezzo fa, il 7 giugno il Ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, si presentava all'assemblea della Confcommercio promettendo l'abolizione dello spesometro e del redditometro; in realtà, questo decreto non cancella nulla. L'articolo 10 si limita a modificare la procedura per individuare i criteri del redditometro, che rimane comunque lo strumento di accertamento sintetico del reddito.
L'articolo 11 non fa che rinviare di qualche mese l'applicazione dello spesometro; anche la fatturazione elettronica nel caso dei benzinai, dei rivenditori di carburante viene rinviata soltanto di qualche mese.
Al di là delle promesse disattese, questi rinvii lanciano il segnale sbagliato. Dopo anni di successi sul fronte della lotta all'evasione, culminata appunto l'anno scorso con il recupero di oltre 25 miliardi di euro, ovvero di oltre un punto percentuale del nostro PIL, questa è la manovra populista che, mentre magari si prepara l'ennesimo condono, intende raccogliere effimeri consensi nel breve termine, ma pregiudicando quel contratto tra contribuenti onesti e lo Stato nel medio e lungo termine. Si vuole davvero aiutare chi non riesce a pagare tasse? Allora, benissimo, compensiamo le cartelle esattoriali di quelle imprese e professionisti che hanno crediti con la pubblica amministrazione, come proposto da altre forze dell'opposizione.
In termini, invece, di lotta al gioco d'azzardo si poteva fare molto di più: è giusto agire per combattere questa grave piaga sociale, in grande espansione nel nostro Paese. Ogni anno, gli italiani spendono oltre 1.500 euro a testa, conto una spesa di soli 60 euro in nuovi libri; 1.500 a testa per il gioco d'azzardo e 60 euro appunto in nuovi libri. Le macchine da gioco, soprattutto le slot machine da noi sono quasi 400 mila, una ogni 150 abitanti, una percentuale altissima. Solo per dare un esempio, in Germania è una ogni 260 e in Spagna una ogni 240. Ma per questo motivo occorreva andare oltre il solo divieto della pubblicità; anche questa sembra una misura cosmetica, dato che la pubblicità degli apparecchi da divertimento, appunto le slot machine è il settore di gran lunga più problematico per il disturbo da gioco d'azzardo. La pubblicità di questo settore, però, è prossima allo zero; quindi, il divieto della pubblicità non va a intaccare o ad aggredire quello che è il settore più problematico. Inoltre, in assenza di un approccio più organico, più olistico di contrasto, appunto, al fenomeno il solo divieto della pubblicità rischia paradossalmente di favorire il gioco d'azzardo illegale, dato che quello legale non avrà più modo di promuoversi, di distinguersi dagli operatori illegali come, appunto, richiamava la raccomandazione della Commissione europea del 14 luglio 2014.
Il testo, comunque, nella lotta al gioco d'azzardo, è migliorato notevolmente in Commissione - forse questo potrà ricordare a Beppe Grillo che il Parlamento può ancora essere utile a qualcosa - anche grazie agli emendamenti del Partito Democratico, con l'istituzione del monitoraggio nazionale e di una banca dati proposta dall'onorevole Carnevali e l'introduzione, con l'emendamento Ascani e Fregolent, di lettori elettronici di tessere sanitarie su ogni dispositivo di gioco, per impedire l'accesso ai minorenni.
Vede, Presidente, un'indagine de L'Espresso illustra quanto appunto ci sia un allarme giovani nel gioco d'azzardo; quasi la metà dei giocatori avrebbe appunto tra i 15 e 19 anni, da cui quindi l'utilità di introdurre un logo no slot nei locali che decidono di privarsi delle slot machine, come previsto dalla nostra posta emendativa. Ma si poteva andare ben oltre, si sarebbe potuto permettere alle famiglie di chi è affetto da azzardopatia di accedere al fondo antiusura del MEF, coinvolgere gli enti locali nella gestione di progetti di sostegno e recupero degli azzardopatici, aumentare le risorse del fondo per il gioco d'azzardo patologico, introdurre formule di avvertimento, come con i pacchetti di sigarette o proibire l'apertura di sale da gioco in prossimità di scuole o strutture sanitarie.
Anche nel mondo dello sport questo decreto reca danni in termini di dignità. L'articolo 13 abolisce la riforma del settore approvata dal Governo Gentiloni e questo succede a scapito di tanti operatori del mondo dello sport dilettantistico; i laureati in scienze motorie non potranno più beneficiare della copertura dell'INPS e dovranno avere avanti a suon di rimborsi spese, come volontari, quando invece dovrebbero essere riconosciuti in quanto lavoratori. Vedo ben poca dignità in questo provvedimento, se non l'intenzione di passare con un colpo di spugna su interventi del Governo precedente.
Infine, rimangono forti dubbi sugli articoli legati al mercato del lavoro, l'hanno già detto molti miei colleghi che mi hanno preceduto, per combattere la precarietà occorre minore ricorso al lavoro a tempo determinato, non aumentare il costo del lavoro determinato. In Italia abbiamo un eccesso di offerta è un'alta disoccupazione; se si aumenta il costo del lavoro, il numero di assunzioni diminuisce automaticamente. Il combinato disposto tra la reintroduzione dei voucher e i limiti imposti ai contratti determinati in termini di durata, costi dei contributi previdenziali e numero di proroghe, porteranno ad un aumento della precarietà e della disoccupazione. Il numero di contratti a tempo determinato è completamente nella media europea ovvero il 16 per cento del totale, secondo i dati OECD.
Il primo punto sul quale agire deve essere il cuneo fiscale che, quello sì, è tra i più alti a livello europeo. Quindi, ci rallegriamo per l'introduzione in extremis, venerdì pomeriggio, nelle ultime battute in sede referente nelle Commissioni riunite, cioè che il Governo abbia voluto agire su questo fronte. Però, purtroppo, constatiamo che sono la brutta copia delle misure introdotte dai Governi Renzi e Gentiloni, le misure che prevedono l'estensione e l'esonero del 50 per cento dei contributi per i neoassunti fino a 35 anni dagli attuali 30 anni, ma soltanto per il biennio 2019-2020.
Infine, il problema più grande. La reintroduzione delle causali dopo dodici mesi pone il serio rischio che molte aziende preferiranno non rinnovare il contratto per sfuggire al rischio di un aumento dei contenziosi. Insomma, questo decreto invece di stabilizzare i precari, ne incentiva il licenziamento.
Per concludere, questo decreto si prefigge come obiettivo quello di ridare dignità ai lavoratori e alle aziende d'Italia; in realtà, c'è una serie di interventi che non cambiano nulla nella vita delle persone. È un decreto a costo zero, che non investe su nulla, che non scommette. È vero, non si crea lavoro con le leggi, ma le leggi sbagliate o confuse possono distruggere il lavoro che esiste. Questo decreto serve solo a nutrire la narrazione mediatica del Governo con slogan estremamente allettanti: stop alla precarietà, stop alle delocalizzazioni, bastonando le nostre imprese con nuovi divieti, nuovi obblighi e illudendo i miei coetanei che queste misure basteranno a trasformare i loro contratti determinati in contratti indeterminati.
Presidente, per ridare davvero dignità e opportunità alle lavoratrici e ai lavoratori, ma soprattutto ai giovani in Italia occorre investire molte più risorse per abbattere il cuneo fiscale, occorre introdurre un salario minimo legale, occorre introdurre nuove tutele per i lavoratori dell'economia collaborativa, occorre estendere gli sgravi fiscali per l'imprenditoria giovanile, occorre contrastare gli stage non retribuiti, un veicolo di immobilismo sociale, investire molte più risorse in istruzione e diritto allo studio: l'Italia il Paese che meno investe in istruzione, meno l'otto per cento del PIL, siamo gli ultimi dopo l'Ungheria, tutte misure che non vedo presenti in questo decreto e invece solo con esse avremo forse la possibilità, un giorno, di avviare un conroesodo e dare una risposta a quei 100 mila ragazze e ragazzi che ogni anno lasciano un Paese che troppo spesso sembra offrire loro solo un misto di stipendi greci e tasse svedesi.